LA STAMPA
apparso il 28 Novembre 2016
Ad Abu Dhabi 190 ragazzi si confrontano con i problemi del mondo
Vietnam, Yemen, Zambia, Zimbabwe… Ore 10 del mattino, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’appello dei 193 paesi membri è appena terminato e si apre la sessione sui rifugiati. A grande maggioranza viene stabilita la durata di un minuto a intervento. I delegati in severi tailleur e azzimati abiti da uomo si alternano sul palco: quei 60 milioni di rifugiati sparsi per il pianeta riguardano tutti. L’atmosfera è grave, solenne. Vera. Solo che non siamo nel Palazzo di Vetro di New York ma nell’aula magna della New York University di Abu Dhabi, dove 190 ragazzi dai 13 ai 26 anni si esercitano nell’arte somma della negoziazione simulando tensioni e inventando compromessi.
Benvenuti al «Change the World Model United Nations Emirates», il laboratorio formativo organizzato dall’Associazione Diplomatici che, unico nel suo genere, ha ricevuto l’ok a tenersi una volta l’anno nel quartier generale dell’Onu. New York dunque, ma chi manca quella simulazione può candidarsi a Roma, Barcellona, Bruxelles e Abu Dhabi. La formula è la stessa, tre giorni di full immersion nelle dinamiche geopolitiche che giocano (sul serio) a minacciare o scongiurare guerre.
È ancora l’eco sessantottina del mondo salvato dai ragazzini? Salvato magari no, ma salvabile forse sì. Perché a incrociare nei break questi studenti pakistani, indiani, arabi, spagnoli e italiani, con le emiratine che arrivano velate fino ai piedi e poi si rilassano ragionando di Siria insieme ai coetanei, viene da pensare che con tutti i suoi limiti l’idea delle Nazioni Unite resti il timone meno improbabile per navigare nel mondo grande e terribile. Specie se affidato ai più giovani.
La simulazione è più che verosimile. Prima di partire gli studenti trascorrono quattro mesi a studiare le crisi in corso e a calarsi nel Paese assegnato loro. Poi interpretano la parte, bisticciano, mediano. C’è la 23enne Lorenza Tartaglia che rappresenta la Malesia al Security Council e pur dovendo difendere la sua alleanza con i sauditi entra in crisi quando giunge la notizia dell’ennesimo bombardamento sui civili in Yemen. C’è la liceale palestinese Leyan el Saadi che all’Assemblea Generale veste i panni della Germania e auspica un soggiorno limitato per i profughi onde evitare scontri culturali. C’è il 13enne bengalese Aain Bajwa, deciso a difendere le ragioni del suo Cile facendo pressione per un resettlement dei rifugiati finanziato dall’Onu, e c’è Alessandro Pannozzo, 19 anni, universitario romano e sviluppatore di app, che spiega con la realpolitik la sua alleanza di kazako con la Cina.
Tutti diplomatici in erba? Non necessariamente. Leonardo Chiaria, 16 anni, detesta l’antipolitica e vorrebbe diventare senatore. La 13enne danese Dimitra Fulke s’immagina dottore. L’universitario Nelson Mallé Ndoye, uno degli italiani che è qui con una borsa di studio, vorrebbe fare teatro. Il Cwmun apre la testa, spiega il 14enne milanese Francesco Ciccardi: «Questo corso è un regalo di mia madre che ha investito su di me. Imparo, capisco, cresco».
E pensare che tutto è iniziato nel 2000, quando Claudio Corbino ha fondato l’Associazione Diplomatici e si è inventato questo laboratorio. «Il primo anno portai al Palazzo di Vetro 45 studenti, a oggi, senza sponsor pubblici né privati, ne abbiamo mobilitati 20 mila e l’Onu ci guarda con serietà» racconta schizzando da una sessione all’altra. La scorsa primavera la sua struttura, che nel frattempo ha assunto 87 ex partecipanti al corso, ha ottenuto lo status di osservatore permanente all’Ecosoc, il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite.
«Piccoli diplomatici crescono», scherza Antonio Volpe, professore di storia al liceo Virgilio di Meta. È uno degli accompagnatori: ha formato i ragazzi che ora formano lui.